Lo stupro e le sue vittime, reazioni fisiologiche ed emotive secondo le neuroscienze.
Nelle ultime settimane è venuta alla luce la terribile vicenda delle violenze messe in atto da Genovese ai danni di una giovane donna di 18 anni. Non entro nel merito della vergognosa narrazione sull'imprenditore di successo, sulle responsabilità della vittima, tanto più se colpevole di essere giovane, attraente e ambiziosa: trasformarsi in escort, prostituta, in quella che se l’è cercata è un attimo nel tribunale popolare, soprattutto quello che si autolegittima attraverso i social, spesso con una strizzatina d’occhio anche da parte della trattazione giornalistica ufficiale.
Finchè rimaniamo nel ruolo di ascoltatori, lettori passivi di notizie coi relativi commentari, il nostro equilibrio ci permette, se ne abbiamo gli strumenti, di prendere distanza dal cosiddetto victim blaming; ma quando da spettatore si diventa vittima, il nostro modo di funzionare cambia, usciamo dalla modalità razionale di quando siamo al sicuro ed entriamo in schemi di funzionamento “da sopravvivenza” che trascinano con sé emozioni e pensieri diversi che spesso colludono con queste narrazioni.
Perché le donne non denunciano?
Perché la vittima di Genovese deve esser grata che ci fossero telecamere di sorveglianza che hanno ripreso tutto, pena la possibilità di essere creduta?
Perché se una donna non riporta i segni di un massacro, è così difficile crederle, al punto che molte donne non credono più neanche a se stesse?
Nel mio lavoro ho imparato, durante i primi colloqui, in fase di raccolta anamnestica, a domandare esplicitamente se ci sono state esperienze sessuali vissute in maniera coercitiva, inappropriata: ho capito che devo spiegare nei dettagli cosa intendo, “situazioni in cui hai detto no e qualcuno ti ha fatto cose che non volevi”: ho scoperto con sgomento che questa indagine porta ad un mondo sommerso in cui difficilmente trovo come risposta dei “no” netti e sicuri.
Nell'immaginazione collettiva, lo stupro è associato ad uno sconosciuto con coltello che aggredisce alle spalle, immobilizza, minaccia, violenta e se ne va. Nella realtà, ci sono insegnanti di scuola, istruttori sportivi, insegnanti di ripetizioni, "amici", compagni di serate; dall’altra parte vittime paralizzate, spesso manipolate, che non denunciano perché per lo più incapaci di dare il giusto nome a ciò che hanno vissuto. O perché si vergognano.
S.E. Taylor (U.C.L.A., Los Angeles) nel 2000 pubblicò un importante articolo** sulle risposte bio-comportamentali allo stress nelle donne: la femmina umana, evoluzionisticamente parlando, deve essere in grado di proteggere se stessa e la prole anche nei momenti in cui è fisicamente più vulnerabile, nella gravidanza o quando sta accudendo i bambini piccoli; la reazione di attacco fuga, non è pertanto la miglior strategia per la femmina, per lo più in condizioni di inferiorità fisica rispetto ad un potenziale aggressore. Pertanto la selezione naturale ha favorito una reazione specifica definita "Tend-and-befriend": questa risposta istintiva e non mediata dal pensiero razionale, induce in particolar modo la donna ad affrontare le situazioni di stress creando legami con altre donne (il gruppo è protettivo e crea confusione nel predatore) e mostrando accondiscendenza, ad esempio sorridendo al proprio aggressore. In condizioni di inferiorità fisica infatti, una reazione di immobilità e accondiscendenza è volta a ridurre la violenza dell'aggressore. Da un punto di vista neuro-endocrino, la reazione istintiva di Attacco-Fuga è stata studiata principalmente su topi MASCHI (le femmine mostravano troppe variabili ormonali legate al ciclo e venivano escluse dagli studi di laboratorio): quella che per lungo tempo è stata considerata come la principale reazione alle minacce è pertanto quella maschile, mediata dal testosterone, mentre quella femminile, profondamente diversa, è regolata da ormoni quali ossitocina e oppioidi endogeni.
È quindi fisiologicamente insensato assumere a priori che, di fronte ad un'aggressione fisica o sessuale, la prima reazione della donna debba essere aggressiva (aumenterebbe l'intensità della violenza), mentre è assolutamente plausibile che la vittima si paralizzi o cerchi una mediazione col suo carnefice.
In natura, l'emozione connessa alla sottomissione è la vergogna: ed è questa, in aggiunta alla non consapevolezza dei meccanismi sopra descritti, porti le vittime a non denunciare e a considerarsi esse stesse, a posteriori, colpevoli di aver provocato, di "esserci state", di non essere state in grado di reagire. Purtroppo anche a livello culturale e istituzionale, non c'è ancora un'adeguata competenza al riguardo, ma il mio auspicio è che quantomeno si possa promuovere una psicoeducazione che porti le vittime a comprendere quanto è accaduto, a legittimare le proprie reazioni e normalizzare la vergogna, accogliendo i sintomi post traumatici che spesso si provano (panico, flash back, insonnia, aumentato allarme) non come segnali di "sto diventando pazza" ma come l'esito di una violenza subita.
E se con queste informazioni potessi indurre anche una sola persona a non aggiungere commenti inopportuni e offensivi a una ragazza vittima di violenza, sentirei, come scrive Emily Dickinson, di non aver vissuto invano.
*Riferimento al murales di Luca Ximenes, in arte Desx, in cui sono raffigurate 107 sagome bianche, ognuna con una targa recante il nome della donna uccisa, con relativa data di nascita e morte. IL murales è stato più volte deturpato dai vandali.
**E.S. Taylor et al., Bio-behavioral responses to Stress in female: Tend-and-Befriend, not Fight-or-Fly, Psychological Review, Los Angeles, 2000.
Dott.ssa Elisa Accornero Psicologa dello sviluppo – Psicoterapeuta oncologica EMDR– Mindfulness – Ipnosi Tel. +39 347 50 345 46
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