In questo periodo si è parlato spesso di infermieri e medici come angeli, eroi: si è sentito il bisogno di utilizzare termini idealizzanti per descrivere quelle professioni che hanno lavorato a stretto contatto con i malati di COVID19. Mi sono spesso chiesta di chi fosse il bisogno di idealizzazione: di malati e familiari, per sostenere la speranza che qualcuno di onnipotente ci salvi? Della popolazione, perché di fronte a un nemico invisibile abbiamo bisogno di figure ben identificabili che assumano il ruolo di salvatori?
Me lo chiedo perché lavoro da anni con gruppi di infermieri e so che a loro questa veste di eroi idealizzati sta stretta. Certamente come tutti si sentono gratificati da un rimando positivo sul loro lavoro, che riconosca il loro investimento e la loro dedizione: questo sì, gli infermieri sono una categoria che mette amore in quello che fa. È un lavoro che difficilmente può prescindere dall’amore. Tra gli infermieri che conosco tuttavia, maggiore è la cura e la dedizione che si mette nel contatto coi pazienti, maggiore è l’irritazione davanti ai commenti che li descrivono come figure angelicate.
Ho lavorato molti anni presso un’Unità di Oncoematologia Pediatrica, a supporto dei pazienti, ora continuo a svolgere una consulenza a supporto del personale. Le lacrime più calde, dopo quelle versate dai genitori, sono quelle versate dagli infermieri. Lacrime copiose, singhiozzi liberatori, che ho dovuto insistere e lottare perché trovassero uno spazio legittimo in cui esprimersi: nell’immaginario comune gli eroi non devono piangere, devono svolgere il loro lavoro con abnegazione e cura ma possibilmente non affezionarsi, non “portarsi il lavoro a casa”, essere disponibili all’ascolto ma anche muoversi come soldatini efficienti, veloci e infallibili.
Gli infermieri con cui lavoro sono persone normali che coltivano delle doti incredibili, attraverso un lavoro certosino di Cura dell’Altro, di osservazione e ascolto. Sono persone così abituate a illuminare gli altri, che spesso dimenticano di coltivare la propria personale fonte di luce: hanno bisogno di essere legittimati a farlo, hanno bisogno di spazi in cui farlo e di qualcuno che si assuma la responsabilità del loro diritto al benessere.
Io sto usando dei termini che fanno riferimento ad una sfera emotiva: se vogliamo usare una terminologia più scientifica, gli infermieri sono professionisti estremamente a rischio di burn out e non solo, di sviluppare sintomi post traumatici poco riconosciuti perché rimangono ben nascosti dietro la corazza della divisa. Come categoria, credo che gli infermieri abbiano nella loro cassetta degli attrezzi tantissime risorse: la preparazione sul piano cognitivo, una forte motivazione alla cura dell’altro, una buona capacità di fare gruppo che dà loro un forte senso di affiliazione professionale. Ma occorre saper guardare oltre la divisa, che rischia di diventare un’armatura dentro la quale si soffoca se non si trovano spazi in cui far sfiatare i sentimenti, le immagini, gli eventi che questi professionisti devono gestire quotidianamente.
Compassion fatigue è chiamata la sindrome che rischia di assorbire le energie di chi lavora nella relazione d’aiuto. Ammalarsi nella com-passione (=sentire con) nei confronti di chi soffre, traumatizzarsi per l’identificazione con le persone che assistiamo: la passione per il proprio lavoro diventa un contrappeso sempre più pesante rispetto alla fatica, al bisogno di fermarsi, alle immagini dei pazienti che invadono, senza controllo, i momenti della propria vita privata.
“Ho bisogno di parlarne, ma non lo faccio per non appesantire i miei familiari”, “Sto facendo i compiti con mio figlio, ma intanto penso a quel bambino, a quella mamma”, “Sono in ferie ma penso alle mie colleghe, alla fatica che staranno facendo per coprire la mia assenza.”
Queste sono solo alcune tra le tante testimonianze quotidiane degli infermieri impegnati nei reparti ad alta intensità.
Il mio augurio è che questi preziosi professionisti possano incontrare ciò di cui hanno bisogno, non sterili idealizzazioni ma progetti concreti di tutela del loro benessere psicologico e psicofisico, turnazioni lavorative che ne tutelino gli spazi di vita e di recupero favorendo una positiva gestione dello stress, un riconoscimento economico adeguato e una politica di assunzioni che favorisca la possibilità di lavorare senza essere costantemente sopraffatti da un carico eccessivo.
Dott.ssa Elisa Accornero Psicologa dello sviluppo – Psicoterapeuta oncologica – EMDR– Mindfulness – Ipnosi Tel. +39 347 50 345 46 https://www.escogito.info/profilo?p=elisa-accornero
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