È necessario legittimare le mamme ad ascoltare i propri bisogni e a chiedere aiuto, perché su questo si basa, sin dall’inizio della storia dell’Uomo, la sopravvivenza della progenie e l’affermazione della nostra specie.
Festa della mamma. Le riflessioni sulla gestione dei bambini e sullo stress genitoriale in questo periodo sono molte, le soluzioni, purtroppo, ancora poche. Il rischio che le mamme, le donne, abbiano delle pesanti ripercussioni sulla propria vita lavorativa, è concreto. C’è isolamento sociale e psicologico, la problematica della gestione dei figli è la grande assente nei tanto attesi discorsi che scandiscono la nostra vita ai tempi della pandemia.
Sono così tante le emergenze psicologiche, che lo stress delle mamme passa un po’ come un rumore di fondo, spesso confinato alle famose chat: si sa che le mamme sono stressate ma in qualche modo forse si pensa che se la sbrigheranno. Eppure, improvvisamente, le mamme si sono ritrovate senza scuole, senza tate, senza nonni, a dover gestire smart working e figli a casa, nel mezzo di una crisi sanitaria mondiale.
Spesso lo stress delle madri viene sottovalutato, reso patologico e medicalizzato. Pensiamo che, essendo la maternità una cosa naturale, se una madre si lamenta èi per forza una madre patologica.
Ma se vi dicessi che è proprio la capacità delle madri di chiedere aiuto che ha permesso l’evoluzione della specie fino ai giorni nostri?
Crescere la prole per gli esseri umani richiede un’enorme quantità di risorse: anche paragonati ai grandi primati, il cui tempo di accudimento è di 6-7 anni, i tempi in cui gli umani devono provvedere cibo e protezione per i loro cuccioli è di gran lunga superiore.
Tra i nostri antenati preistorici, principalmente raccoglitori e cacciatori, il numero di figli di una stessa madre era regolato da un delicato equilibrio tra le condizioni ambientali e la sua fisiologia riproduttiva: ad esempio sopraggiungere al menarca era possibile solo quando la donna raggiungeva una certa massa corporea. Durante il Pleistocene, solo le ragazze che vivevano in un ambiente sufficientemente ricco di cibo, che erano nutrite dalle loro madri o altre persone del clan, riuscivano ad arrivare al menarca (Hrdy, 1999). In questo modo, la selezione naturale ha premiato le giovani donne incinte che potevano crescere i loro figli in un ambiente capace di supportarle in questo compito.
Di fatto, riproducendosi all’incirca ogni 3-4 anni, la femmina umana si trovava a dover badare a dei neonati senza che gli altri figli avessero già raggiunto la possibilità di provvedere a se stessi. L’evoluzione degli esseri umani come cooperative breeders avrebbe quindi avuto un ruolo decisivo nella sopravvivenza della specie: come ci è stato possibile evolverci con così grande successo, alla luce dell’altissimo costo richiesto per l’allevamento dei nostri cuccioli, se paragonato alle altre specie a noi simili, come i grandi primati?
Grazie alla capacità delle femmine umane, maturata nel corso dell’evoluzione, di chiedere e ricevere aiuto nell’accudimento dei propri figli, cosa affatto scontata tra le neomamme di molte specie di mammiferi, istintivamente aggressive e diffidenti verso chiunque avvicini i loro cuccioli.
Chi aiutava le mamme a crescere i loro figli?
Iniziamo dai padri. Il coinvolgimento dei padri nella cura dei figli per l’essere umano è sempre stato notevolmente superiore rispetto a tutte le altre specie. Tuttavia, tra i nostri antenati cavernicoli, il ruolo dei maschi era quello di andare a cacciare: questo li rendeva assenti, anche per più giorni, ed il rischio che tornassero a mani vuote, se non feriti o uccisi, era molto alto.
Era di qualcun altro il ruolo di supporto maggiore, qualcuno che ancora oggi è una risorsa indispensabile per alleggerire il carico, qualcuno che già ha sperimentato il ruolo di madre e mette ora a disposizione la sua esperienza: LE NONNE.
La loro presenza nel corso dell’evoluzione, assunse uno spazio sempre più ampio e prezioso: una presenza costante, esperta, che ogni giorno poteva uscire a raccogliere radici, semi, nutrimenti vegetali reperibili nelle vicinanze e che di fatto potevano garantire un nutrimento costante ai bambini che non venivano più allattati (Hawkes, O’Connell, & Bluton Jones, 1989).
In sostanza, le nonne avrebbero avuto il ruolo determinante di incrementare il successo riproduttivo della figlie, consentendo loro di occuparsi al meglio dei neonati e provvedendo alla cura dei bimbi più grandi ma ancora dipendenti dalle cure degli adulti. Nel tempo, questo avrebbe portato alla selezione delle donne che potevano sopravvivere più a lungo dopo la menopausa, perché questo garantiva una maggior probabilità di sopravvivenza alle figlie e ai nipoti.
Parallelamente, la madri umane, rispetto alle altre specie animali, hanno dovuto sviluppare un’istintiva capacità di fiducia nelle altre donne, nonché la capacità cognitiva, maggiormente sviluppata durante i mesi della gravidanza, di immaginare e costruire una rete sociale disponibile a supportarle nell’allevamento dei figli, un elemento fondamentale per garantire o meno la sopravvivenza della propria progenie. Per questo è tanto importante il rapporto di fiducia con balie e tate.
L’impossibilità di accedere a un supporto adeguato, rendeva inevitabilmente i piccoli più vulnerabili e ne abbassava la probabilità di sopravvivenza, inducendo nella madre un istintivo e autoprotettivo disinvestimento emotivo (Hrdy, 1999).
Ai giorni nostri sono estremamente diffusi tra le neo-mamme stati d’animo caratterizzati da ambivalenza, forti stati d’ansia, depressione, condizioni di stress che possono portare ad agiti anche estremi: condizioni che spesso vengono considerate vere e proprie patologie e che aumentano il vissuto di inadeguatezza che le donne vivono in un periodo in cui la società le vorrebbe radiose e soddisfatte. Secondo la prospettiva evoluzionistica, questi stati d’animo sarebbero legati all’eredità psico-biologica dei nostri antenati e dovrebbero modificare le domande che le madri in crisi si pongono: non tanto “Cosa c’è di sbagliato in me?” o “Perché non sono in grado di gestire la situazione?”, quanto piuttosto “Di cosa ho profondamente bisogno adesso?”, “Quale tipo di supporto mi aiuterebbe in questo momento?” (Bogels, Restifo, 2015)
La possibilità di percepire un supporto ambientale mette una neo mamma nelle condizioni di poter sviluppare un investimento affettivo adeguato nei confronti del proprio cucciolo, offrendo allo stesso la possibilità di maturare un attaccamento sicuro, base per il benessere psicologico, relazionale e anche fisico del futuro adulto.
Dott.ssa Elisa Accornero Psicologa dello sviluppo – Psicoterapeuta oncologica – EMDR– Mindfulness – Ipnosi Tel. +39 347 50 345 46 https://www.escogito.info/profilo?p=elisa-accornero
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