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La felicità non è un diritto, ma forse conviene cercarla



In questo periodo abbiamo assistito alla questione vaccini-green pass e relative proteste, sollevando riflessioni (che non sempre meritano questo nome) relative alla libertà personale e al diritto dei governi di imporre misure che ne limitino la portata in funzione di una tutela pubblica.


Senza entrare nello specifico di questo tema, mi sono trovata a riflettere su cosa sia la libertà, e che nesso abbia con la felicità. C’è un assunto di base, condiviso ma spesso non esplicitato, che ci vede detentori di un diritto alla felicità, correlato a un concetto di libertà inteso come la possibilità di accedere a soddisfazioni immediate, all’eliminazione di frustrazioni e fastidi. Il diritto inalienabile di andare al bar, il diritto inalienabile all’aria condizionata quando fa caldo, il diritto inalienabile alle vacanze.

È questa la libertà che realmente ci porta ad essere felici? A quale libertà voglio educare le mie figlie?

Personalmente sento che il seme della felicità sia piuttosto nascosto in un terreno meno banale: un terreno sul quale sperimentare il poter vivere, almeno in parte, senza sovrastrutture, fisiche e cognitive. Oggi andavo in giro per un bosco dopo un violento temporale e mi sono irritata perché la sterrata, divenuta una colata di fango, non era ben manutenuta e, se volevo attraversarla, dovevo riempirmi i piedi di fango (indossavo dei sandali). Dopo cinque minuti di irritazione a pensare a quando avrei dovuto pulire i sandali dal fango, ho provato a godermi la sensazione del fango sui piedi, morbido e fresco, e mi sono sentita improvvisamente libera: a 41 anni posso finalmente sguazzare nel fango liberamente, senza essere sgridata, neppure da me stessa. Cos’altro mai può essere la felicità?

Nell’accettazione di qualcosa che già era, nel sostare sul presente e assaporare l’esperienza, senza giudicarla, ho appreso una grande verità: in natura, quando piove, c’è il fango. Nonostante la mia incazzatura. Wow.

Quanto apprendiamo per etichette, quanto siamo abituati ad associare esperienze di per sé neutre con giudizi positivi o negativi?

Sporcarsi è male (darà tanto lavoro alla mamma!), sudare fa ammalare, non si corre… ciascuno di noi continui con la propria personale eco a tante voci del nostro passato… e che ne pensate dei tanti è così di carattere, è-fatta-così-non-la-cambi, era così già sua madre, sei come tuo padre

Quante volte abbiamo affibbiato o ricevuto etichette, dovevano essere post-it e sono invece diventate tatuaggi che riportano come siamo e saremo per sempre. Timidi, introversi, svogliati, non-fatti-per-studiare, vivaci, ingestibili, rabbiosi.

Che c’entra con la faccenda della felicità? C’entra. Perché spesso queste etichette ci impediscono di vedere noi stessi a mente fresca e vanno a limitare la libertà con cui ci approcciamo alla vita. I bambini si fidano di noi e rischiano di rimanere impigliati nelle nostre etichette come i pesci delle reti della peggiore pesca a strascico.

Penso alla scuola tradizionale, luogo in cui, dai 6 anni in poi, tutto quello che abbiamo dal collo in giù non serve alla didattica, anzi, le gambe spesso sono un demoniaco strumento al servizio dell’iperattività. Le emozioni? Un condimento eccessivo e superfluo della portata principale, l’intelletto.


Recentemente tre laureande della Normale di Pisa, in un intenso discorso di fine anno, hanno messo in discussione, tra le altre cose, le condizioni di estremo stress e competitività in cui gli studenti apprendono in un contesto di eccellenza, raccontando di essere arrivate alla fine del loro percorso NONOSTANTE, non GRAZIE, a queste condizioni. Hanno invitato il corpo docente a rinfrescare una mentalità che vede nella competizione, e non nella cooperazione, il seme dell’eccellenza: una mentalità che crea divisioni, individualismi, malessere.

Cooperazione quindi, ottimismo, gentilezza e mente aperta: questi gli ingredienti per un apprendimento efficace, per un clima emotivo che promuove autostima e autoefficacia, anche secondo la più recente ricerca in ambito neuroscientifico. Piccole pause (in gergo brain breaks) in cui meditare, respirare profondamente e muoversi, accettazione e curiosità, per avere bimbi felici e svegli. E il senso di appartenenza a un gruppo, in cui si può chiedere e ricevere aiuto, poiché questa è, in natura, la condizione che mette la nostra sopravvivenza al riparo dalla presenza dei predatori: la condizione in cui, fuori dalla necessità di difendersi dalle minacce, possiamo mettere a frutto le nostre funzioni superiori.


Oddio ma così i nostri bambini saranno in grado di sopravvivere al mondo là fuori?

La risposta è NO. Non sopravvivranno.

VIVRANNO.


La modalità “sopravvivenza” tiene attive le componenti del nostro cervello più istintuali, di attacco-fuga-freezing, di risposte automatiche al pericolo (quelle che ci fanno commentare sui social senza pensare). Apprendere creativamente, saper pensare, rielaborare le esperienze e agire tenendo in mente le esigenze di chi abbiamo intorno sono elementi essenziali per una vita piena e appagante, in cui i nostri bambini possano essere protagonisti di una rivoluzione gentile.

E per noi adulti il mio augurio è che possiamo trovare la forza di decentrarci, di abdicare in loro favore, di non appiccicare loro le nostre etichette apprese, di trovare il coraggio di dar loro le ali che noi non abbiamo avuto.


 

Dott.ssa Elisa Accornero Psicologa dello sviluppo – Psicoterapeuta oncologica EMDR– Mindfulness – Ipnosi Tel. +39 347 50 345 46


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